LA PALANDRA

A lavorare a maglia me lo ha insegnato una vecchia suora, furba come una volpe, che ha vinto le mie resistenze da mancina convincendomi che aveva imparato a lavorare di sinistra solo per poterlo insegnare a me. Credo che abbia dovuto sgranare parecchi rosari poi, perché solo qualche anno fa ho scoperto che mi aveva truffata e che lavoro come una destrorsa, ma si sa che la mente fa il novanta per cento della fatica, sempre.

Il mio primo lavoro è stato un cappellino blu, a cui la povera donna ha tirato su più punti caduti che sospiri, e poi sono stati anni infiniti di presine sghembe che mia nonna mi rifiniva all’uncinetto e che nessuno usava perché ci si scottava comunque le dita.

Negli anni dell’università sono passata direttamente dalle presine ai maglioni, senza passare dalle sciarpe, che tanto diritte non mi venivano mai . Maglioni tinta unita, ma poi anche con trecce e persino con jaquard, ma  decisamente sformati. Oh sì se erano sformati. Giganteschi e sformati, che però con i pantaloni a zampa e le clarks avevano pure una loro ragione di esistere ( …e sorridevi e sapevi sorridere, coi tuoi vent’anni portati così, come si porta un maglione sformato su un paio di jeans…).

Ho ripreso i ferri in mano per riempire i miei bambini di gilet, che li hanno accompagnati dal primo giorno di vita fino ai 5 o 6 anni. Poi diventavano troppo lunghi (i bambini), e io sono per progetti che riesco a finire in un paio di sere al massimo.

Ma una cosa l’hanno sempre avuta in comune tute le mie “creazioni”, erano assolutamente sghembe, imperfette e orribilmente rifinite. Al solito finisco per farne un punto di onore, che ribaltare la realtà è sempre un alibi perfetto.

Quest’inverno l’ho passato avvolta in un maglione superstite degli anni dell’università e così, piano piano mi è venuta voglia di riprendere i ferri che negli ultimi anni quasi non avevo più toccato in favore dell’uncinetto, e così è nata una nuova palandrana, perché altro nome non potrebbe avere.

Lavorando a briglia sciolta, dimenticando di contare i punti e comunque non avendo la più pallida idea di cosa fare una volta dopo averli contati, ho dato vita a questa “cosa” che potrebbe essere definita una coperta da passeggio.palandraE per carità ha una sua utilità, mi tiene calda in casa mentre lavoro o guardo qualcosa su Netflix (ultimamente lo faccio spesso..ehm) e va benissimo anche per uscire a recuperare i ragazzi al volo.

Quindi ero piuttosto soddisfatta di lei. Poi venerdì scorso, grazie a Gaia Segattini, sono andata a conoscere Giuliano e Giusy Marelli nel loro atelier.

È stata un’esperienza intensissima, perché sono una forza della natura. Ci hanno raccontato della loro storia, un vero e proprio intreccio di amore e passione, lavoro e creatività, che li ha portati a reinventare il mondo dell’handmade negli ultimi quarant’anni. Hanno tirato fuori dai bauli vecchi corredi, ridandogli nuova ragione di esistere e fresca linfa vitale, hanno ridato voce a tecniche che nessuno voleva più ascoltare. Ma soprattutto hanno intrecciato ferri e fili, per tutta la loro vita, creando delle cose che definire vestiti è decisamente riduttivo.

Quando sono tornata ho provato un moto di fastidio verso la mia palandrana, ma poi ha rinfrescato e me la sono infilata, e sono stata meglio.palandranaCredo che sia meraviglioso che al mondo ci siano mani e menti capaci di creare meraviglie e oggetti perfetti come opere d’arte. Però credo sia anche importante provare comunque a fare le cose, muovendosi nei propri limiti, se li troviamo confortevoli e non sentiamo il bisogno di superarli. Se poi vengono ciofeche informi, pazienza, ci avranno impegnato del tempo che avremo ben speso, e saranno parte di noi più di qualsiasi cosa perfetta possiamo comprare.io e la palandranaEcco, magari prima di regalarle, pensiamoci un pochino sopra….